domenica 15 dicembre 2013

Presentazione ufficiale del Fanta-Thriller dell'anno...

Sabato 
21 alle ore 17
Siete tutti invitati 
alla presentazione ufficiale 
di Mutamenti presso MarassiLIbri
la libreria più IN di Via Casata Centuriona 31r




Accorrete numerosi...



sabato 7 dicembre 2013

LE PROVE

Mutamenti finalmente arriva a MarassiLibri...

Ecco le prove fotografiche strappate da un satellite spia della Nasa...

Tra Beppe Morelli (argh) e Papa Francesco (pover'uomo) ecco lì che si distingue la manona di Mutamenti...


Non la vedete? Ecco allora l'ingrandimento...


E all'interno no?
Uff... come siete noiosi...
Ecco qui...
Sezione Fanta-Thriller appositamente creata dalla brava libraia (alias Natascia Mameli)...



Quindi?
Che fate ancora qui a leggere questo post... uscite e filate a trovare Natascia e a comprare un sacco di libri (anche una copia di Mutamenti eh... :))) )...
Come dite?
Non sapete dov'è MarassiLibri?
Ma dove vivete???

Va bene... prendete carta e penna e segnatevi l'indirizzo:



  • via Casata Centuriona 31 r
  • 16139 Genova

Ok, adesso non avete più scuse... filate subito in libreria... !!!



lunedì 2 dicembre 2013

Mutamenti sbarca a Marassi

e poi succede così...
un pò per caso...
che ti ritrovi su un giornale...


ma allora è vero che gli angeli esistono...

vero Natascia???

Prossimamente:



https://www.facebook.com/MarassiLibri

sabato 5 ottobre 2013

Parte 2 – Sul Terzo Gradino

Il neon sopra la mia scrivania sfarfalla da due giorni, ho già avvertito il servizio manutenzione con l’apposita mail, ho seguito correttamente la procedura, ma sfarfalla.
Da due giorni.
Non due minuti, non due ore… due giorni.
Mi fa bruciare gli occhi, mi deconcentra, mi fa diventare scortese ed irritabile. Mi fa bere troppo caffè, poca acqua, mi contorce la lettura delle e-mail, mi innesca tic nervosi. Mi induce a tamburellare il dito medio sul bordo della tastiera, a picchiettare il piede sotto il tavolo, a toccarmi il naso settanta volte al minuto.
Spegnerlo è impossibile, l’interruttore comanda tutto l’open space e lascerei al buio gli altri colleghi.
Per questo motivo sono con un piede sulla sedia e uno sulla scrivania nel tentativo di aprire la plafoniera ed estirpare il lampo malefico.
Mentre lotto con la fredda lucciola tubolare, Marcon mi spia nascosto dai trentadue pollici del suo schermo e scuote il capo piano piano, la Signora Fantini, con il suo fare materno, mi regge la sedia per impedire alle rotelle di farmi fracassare sul pavimento. Pozzi e il rag. Strinati mi osservano da sotto dando consigli non richiesti, ridacchiando braccia conserte, come esaminatori alla prova di teoria per la patente.
“Ci vorrebbe un cacciavite a stella…”
“Prova più a destra” – e ancora – “No! Non così!”
Chi la dura la vince, così si dice, e la plafoniera lo sa. Lo sa meglio di me, infatti vince.
Ringrazio la Signora Fantini per l’aiuto, mentre i colleghi tornano alle loro postazioni. Lo spettacolo è finito e non ha soddisfatto il pubblico, a parte i dieci minuti di svago che ha donato. Il neon sfarfalla trionfante sopra di me.
Digito un acido sollecito via mail al servizio manutenzione, lo carico di livore intermittente, clicco il tasto invio e apro il programma di gestione delle buste paga.
Mi chiamo Lucio. Lucio Tavola. Ho trentacinque anni e da sei mesi lavoro come impiegato amministrativo in questo ufficio.
Sono single, porto le lenti a contatto, mi piacciono gli orologi di classe e il buon vino.
Faccio sport: nuoto, corro, pedalo. Non amo sciare, i social network, non ho un blog ne uno smartphone. Mi abbronzo d’estate, mi mangio le unghie. Adoro andare al cinema da solo.
Ho un buon rapporto coi miei colleghi, mi sono ben inserito. Pozzi, ad esempio, stamattina, appena mi ha visto con la sola camicia, mi ha portato alla sua postazione e mi ha allungato la “cravatta d’emergenza” che lascia appesa alla maniglia dello schedario.
Lavoro sodo. Sono serio ed affidabile, disponibile a trasferte, a straordinari non pagati, automunito, vaccinato e discreto. Laureato con lode, destro naturale, allergico al polline di faggio.
Sono puntuale. Sempre.
Quasi sempre. Mi viene da dire ora, che fisso la scatola di latta che mi è stata data dalla Signora Marisa.
L’ho posata nell’angolo cieco della scrivania, nessuno la può vedere, tranne me. Mentre nutro il programma con i suoi numeri ed i suoi codici di accesso, faccio scappare lo sguardo alle croste arrugginite e la mente, giocoforza, se ne va al singolare incontro di stamattina.
Non riesco ancora a capire come abbia fatto la simpatica vecchina a sparirmi sotto il naso, chiudendomi a chiave dall’interno, senza farsi vedere. Mi ripropongo di tornare a trovarla prestissimo, forse già stasera, restituirle le chiavi e a chiederle il perché di quel biglietto con su scritto “TROVALO”.
Ma trovalo chi? Cosa? E poi perché dovrei trovarlo io? E, nel caso, come?
Ripenso all’odore del suo caffè, a quella casa impolverata, ma pulita, al buio appena scalfito dalla luce che attraversa le tapparelle, alla stoffa logora e sporca che avvolge i rottami di quel revolver a “tutta la sua vita” in quella scatola di latta, che Marisa ha affidato a me.
Il software gestionale fa i capricci e, alle dieci in punto, pianta gli zoccoli a terra e raglia disperato. Si rifiuta di digerire le aliquote irpef e si pianta lanciando messaggi di errore a cascata.
Spengo il terminale e faccio al ragioniere il gesto del caffè. Pollice ed indice della mano destra ad afferrare un ipotetico manico di tazzina e due colpetti secchi, come a suonare un campanellino d’argento, con le altre tre dita in scala reale come penne maestre dell’ala di un’aquila. Strinati scatta in piedi e mi raggiunge, per lui ogni pretesto è buono per fare pausa.
“Mi sono iscritto in palestra sai?” – esordisce drizzando inavvertitamente la spina dorsale – “ho deciso di puntare sullo spinning”
“Puntare sullo spinning per fare cosa?”
“Beh per tornare tonico, buttare giù la pancetta da ragioniere, evitare il tracollo, insomma” – e, chinando il capo, sorride triste.
Strinati non l’ho mai visto ridere di gusto. Mai visto allegro o addirittura felice. A dire il vero, non l’ho mai nemmeno immaginato felice.
Gli do una bella pacca sulla spalla e gli dico: “Allora! Ragioniere! Smettiamola coi piagnistei! Non sei mai stato tonico! Goditi la vita e non stressarti” – ed una bella risata scioglie la tensione e volta pagina su temi più leggeri e tollerabili.
La varietà delle cialde per il caffè, la generosità del principale, la maestosità dello stadio di San Siro, il nuovo record del mondo sui diecimila metri, la sterminata bellezza dell’Africa, le prossime vacanze di Strinati a Cattolica.
La pausa passa in un attimo e Strinati, curvo sotto un invisibile canotto rosa a pois verdi, se ne torna mesto al suo posto.
Io riordino lo spazio comune, getto il mio bicchiere di plastica nel cesto della plastica e le briciole dello snack di Strinati in quello dell’umido. Mi incammino verso il computer nella speranza di trovarlo resuscitato.
Dalla finestra socchiusa sento distintamente arrivare il canto malinconico di una tromba duettare con un pianoforte. Sembra Passalento, sembra Paolo Fresu, ma non è possibile.
Impossibile anche che provenga dall’ufficio dove la musica è vietatissima, più probabile che sia un’autoradio di passaggio. Proseguo nel corridoio cercando di ricordare le parole che una volta sentii accompagnare quelle note, ma non ci riesco. Buio totale.
Ad tratto un piccolo flash, una percezione lucida e al tempo stesso fugace. Sulla porta del bagno, nel mio ufficio, in uno stabile blindato da due filtri di sicurezza, ho visto Marisa. Mi ha sorriso e fatto “ciao ciao” con la manina.
Torno indietro. Riguardo bene. Non c’è più. Ho le visioni? Mi prende l’ansia.
Torno alla sala caffè, guardo il cesto della plastica, quello dell’umido e ripercorro il corridoio fino al bagno: Marisa non c’è. Sospiro di sollievo.
Entro nel bagno degli uomini e scarico la tensione e, a seguire, l’acqua. Mi insapono accuratamente le mani e me le sciacquo con l’intento di lavare via la tensione per tutte queste strane, misteriose coincidenze. Strappo la striscia di carta assorbente e mi asciugo finalmente le dita, il palmo, il dorso delle mani.
Un altro strappo.
Sul rotolo, con la stessa educata calligrafia del biglietto di stamane, trovo scritto a matita “AIUTAMI”.
Sembra uno scherzo, ma inquieta come un incubo.
Nel bagno non c’è anima viva, fuori nessuno ridacchia e grida “Sei su scherzi a parte!”, tutto sembra procedere come sempre. Tranne per me.
Qualcuno, che non so chi è, mi chiede aiuto a trovare non so cosa.
Non capisco la logica di tutto questo, mi preoccupo perché perdo i punti di riferimento.
Eppure a non avere e soprattutto a non dare punti di riferimento dovrei esserci abituato…
Mi chiamo Lucio. Lucio Tavola. E’ il mio nome da sei mesi.
Per due anni mi sono chiamato Massimo Cavoli, per un lustro Luigi Scevola, ancora prima Giovanni Antimo, Luciano Pegolo, Bruno Minimo, …
Scelgo sempre cognomi sdruccioli, probabilmente perché saltano. Proprio come faccio io: mai troppo nello stesso posto, mai troppo nella stessa vita.


http://maialeimmaginario.wordpress.com/

sabato 21 settembre 2013

Sul Terzo Gradino (Parte 1)


Ho dimenticato di mettere la cravatta.
Questa mattina evidentemente la mia anima si sente casual ed io non posso che vestirmi di conseguenza.
Sono seduto al mio solito bar, quello con le grosse sveglie nere sui tavolini.
Ho preso il mio centro tavola ed ho spostato le lancette sulle sei e quaranta. 
A quell’ora mi ha svegliato il sole: rosso e prepotente ha bruciato i nuvoloni neri, bassi sull’orizzonte, e mi ha incendiato la camera da letto. Forse è lui ad aver sussurrato alla mia anima di non mettersi la cravatta. Consumo una colazione come tante, cappuccino con fiorellino di cacao e cornetto alla crema di pistacchio. Sempre quella, sempre buona ed efficace.
Percorro con passo ozioso, che non mi riconosco, la via di casa, con lo scopo di andare a recuperare l’auto e andare al lavoro. In piedi sull’uscio, davanti al civico 18, si è fermata una vecchina.
Ha i capelli bianchi raccolti sulla nuca, gli occhiali con il cordino ed il grembiule da brava massaia. È in piedi sul terzo gradino e, solo grazie a questo sopralzo, riesce a guardarmi dall’alto verso il basso.
Mi segue con lo sguardo mentre mi avvicino, con occhio prima attento, poi incredulo e mi sorride.
Poco prima che io passi oltre lei mi dice: “Buongiorno”.
Lo dice con una voce carica di una speranza ritrovata che, non conoscendo la signora, non riesco a decifrare.
Mi fermo ad un passo da lei e le sorrido il mio buongiorno di cortesia.
“Fermati a prendere un caffè” – mi dà del tu – “solo un attimo, per favore”.
Io non ci sono abituato alla gentilezza, alla vita di paese, alla confidenza nell’estraneo. Tutt’altro. Vivo in trincea e non rivolgo mai la parola agli estranei, a meno che non mi occorra. Sono un paladino dell’efficienza, del rapporto costo/beneficio, dell’Utile e non del dilettevole, non è nella mia natura accettare un siffatto invito.
Eppure.
“Si, grazie” - mi sento rispondere – “molto volentieri”. Apro il cancello e salgo i tre gradini.
Ancora combattuto sul dare retta o no alla mia anima senza cravatta, mi trovo seduto in sala ad un tavolo rotondo, con una tovaglia bianca fatta all’uncinetto, coperta da una spessa pellicola di plastica trasparente.
Altre tre sedie vuote, identiche alla mia, mi tengono compagnia nel mio disagio incerto.
Vedo la mia faccia riflessa nel grande specchio dell’armadio che occupa la parete davanti a me. Con un’espressione tra lo smarrito ed il divertito osservo la sala, in attesa che la simpatica vecchietta torni qui. Alzo le spalle al me stesso riflesso e conto le vetrinette delle credenze in legno scuro, che riempiono il vuoto del locale.
Una pendola gocciola il tempo alle mie spalle. La poca luce che filtra, gioca con le tende e odora di legno, di bomboniere di antichi matrimoni, di fiori seccati come il ricordo che rappresentano, di tappezzeria dignitosa, ma da cambiare. Il divano è foderato della stessa stoffa delle sedie.
La mia ospite è di là che rovista in un qualche armadio, a giudicare dal sommesso baccano che sento, e mi chiedo cosa faccio qui. Seduto nella penombra con la promessa di un caffè.
Quando riappare dal corridoio, aggiustandosi i capelli, porta tra le mani una scatola di latta quadrata e, nell’aria, una leggera ventata di lavanda e naftalina. Mi sorride triste e, posando la scatola sul tavolo, la tocca con l’indice e dice: “E’ tutta la mia vita”.
Me lo dice negli occhi, con i suoi che sono lucidi, sospira e sparisce in cucina con un allegro: “Preparo la moka!”
La scatola è di latta arrugginita, alta cinque centimetri, di una spanna di lato. Una volta doveva essere smaltata di blu, con una elegante scritta in carattere goticheggiante giallo-ocra. Adesso ha un colore grigio dorato e diverse macchie di ruggine la offendono nel coperchio e sui bordi, rendendone incomprensibile la lettura. Dell’originale disegno si scorge solo un paesaggio, alcune figure in abiti di inizio Novecento, una città, un fiume e nulla più.
“Grazie di cuore di aver accettato il mio invito” – dice tornando dalla cucina con la zuccheriera – “Sono letteralmente anni che nessuno passa a visitare questa casa. E comunque… Marisa. Piacere caro: il mio nome è Marisa Colombo”
“Signora Marisa, la ringrazio di cuore. A me non capita spesso di accettare inviti del genere. Solitamente sono… come dire… piuttosto sgarbato”
“Oh! Non dica così! Si vede che è un bravo ragazzo!” – dice la Marisa, mentre si rintana in cucina – “Lei è una brava persona! Glielo si legge nel cuore!”
I miei occhi indugiano su quella latta chiusa. L’invito surreale e la mia innata curiosità mi urlano di aprire, ma la buona educazione mi impone di frenarmi. Quasi a leggere nel mio pensiero, Marisa torna con le tazzine e mi dice: “ Aprila pure. E’ tutta la mia vita. Apri.” 
China leggermente il capo sulla sinistra e tira su le spalle: “Tra poco il caffè viene su” – e torna di là, lasciandomi solo con il misterioso bottino.
Devo fare forza per far saltare il coperchio. La ruggine ha saldato la latta e fa resistenza. Riesco ad aprire senza troppo rumore. Dentro alcune cianfrusaglie che, lì per lì, non metto a fuoco.
Poso il coperchio da una parte e mi avvicino la scatola. Ricordume. Poche anticaglie, “tutta la sua vita” fanno capolino dall’interno.
La mia attenzione viene attirata da un piccolo, ma pesante involto di stoffa sudicia, forse un lembo di vestito da donna, bianco a fiori lilla, che avvolge ferraglia.
Con religiosa delicatezza apro lo straccio, piega per piega. Il peso dice il vero, si tratta di ferraglia. Per la precisione ferraglia militare. Una pistola. Smontata pezzo per pezzo. La poso con cautela.
Nessuna traccia di proiettili. Dalla cucina, incredibilmente, sento arrivare l’attacco di “Kashmir” dei Led Zeppelin.
Proseguo l’esplorazione. Un mazzo di lettere ingiallite e scritte in bella calligrafia. Il “Marisa mia diletta…” che invariabilmente le apre lascia intendere che siano di un innamorato. Forse il marito? Uno spasimante? Sulla prima una data del 1942. In fondo al mazzetto la foto di un uomo ritratto a mezzobusto. Sono sue le lettere?
Di sughero tondo e corroso dalla salsedine, appare un vecchissimo galleggiante per pesca. Dal residuo di vernice se ne riesce immaginare il migliore aspetto che doveva avere in origine. Giallo e arancione.
Completano il pacchetto: tre bottoni in bakelite e un mazzo di chiavi che sembra molto più recente rispetto ai suoi compagni di scatola.
Improvvisamente mi sento uno spione e, mentre Kasmir decolla, mi alzo e vado incontro al profumo di caffè che arriva dalla cucina. Marisa non c’è. Spengo il fornello e mi chiedo come sia possibile. La cucina non ha altre uscite oltre alla porta che sbuca in sala.
La chiamo, ma non risponde. E’ vecchia, potrebbe non sentire, potrebbe essere stata male. “Marisa! Dove sei?” Kashmir finisce, Marisa non salta fuori.
Cerco nelle altre stanze, le finestre sono sbarrate, la luce spenta, le porte chiuse. E’ sparita e non so come.
Torno in cucina e, cercando di ragionare, mi verso il caffè. Solo adesso noto il biglietto di carta con l’appunto scritto a matita: “TROVALO”.
Tossisco, sputacchiando il caffè, e scappo verso la porta, tento di aprirla, ma è chiusa a chiave.
Sono bloccato all’interno.
L’istinto mi scaraventa sulla scatola di latta, afferro le chiavi e torno alla porta, che stavolta si apre.

Prendo la scatola, il suo contenuto e scappo via.



on Twitter: @Aure1970        maialeimmaginario.wordpress.com

sabato 7 settembre 2013

2° Edizione di #Mutamenti

  



Riveduta, corretta e con qualche piccola sorpresa, non perdetevi la 2° Edizione di Mutamenti.



Prefazione

Come fa uno (uno che non è del mestiere, tra l'altro) ad agganciarti e trascinarti per un mezzo migliaio di pagine con un tiro pressoché costante fino alla fine? Non lo so, ma lui ce l'ha fatta. E, credetemi (ve lo dice uno che ha scritto abbastanza), non è affatto facile; non è facile neanche in un racconto di sessanta pagine, figuratevi in questo garbuglio spaziotemporale, in cui, dicevo, lui (il maledetto Ghioni) vi trascina. E ci riesce mentre, intanto, vi frastorna il cervello con centinaia di migliaia di riferimenti neuroarcaici, psicomutageni, tecnomitologici, sopravviventrascendentali, avviluppati in un destino oracolare in cui i protagonisti sono autori e nel contempo vittime, sospinti da una narrazione (anzi, di più narrazioni) costellate di agganci, oggetti, presenze e situazioni che si ricatapultano in se stesse. E tutto questo non è che una piccola parte del racconto. Già perché tutto questo (almeno a mio modo di vedere) non che che...il teatro per raccontare una storia d'amore (che però nel contempo è anche una domanda filosofica sulla nostra presenza di esseri nel mondo). Tutto qua? Direte voi. Niente affatto, perché la suddetta storia d'amore è la più incasinata che si possa immaginare. Cioè, oltre ad essere incasinata di suo, per il profilo psicologico dei personaggi, il maledetto Ghioni pensa bene di incasinare la vita di questi due poveri cristi in un contesto che supera di gran lunga l'inverosimile, il fantastico, il surreale e il pazzesco. Ah, dimenticavo: il tutto, ovviamente, raccontato con una logica rigorosissima e con la capacità analitica del chimico. Beh, se non siete già stati un paio di volte in vacanza in qualche altro livello di realtà non vi consiglio di leggerlo.


Anentodio Friulzi (Flacca) alias Marco Vimercati




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