domenica 19 gennaio 2014

Sul Terzo Gradino - Parte 4




Una piccola macchia, una sottile crosticina, probabilmente salsa di pomodoro. Il suo rosso brillante di ieri a pranzo è virato al marroncino di stamattina. Sulla manica blu della mia giacca.
La fisso ipnotizzato per tutto il viaggio verso il piano terra, realizzando nella mia mente che non ho budget disponibile per la lavanderia, e mi sveglio infine all’aprirsi della porta dell’ascensore.
Mentre il primo autunno sbadiglia tuoni lontani, percorro il marciapiede con passo rapido, pensando alla cosa giusta da fare. Grattare e fare i conti con un alone polveroso oppure inumidire con la punta di un tovagliolo e sciogliere la macchia? Calcolo tutti i possibili pro, rifletto sui potenziali contro, con l’espressione accigliata di chi deve salvare il mondo.
Arrivo al “bar delle sveglie” in perfetto orario. L’equipaggio della Municipale esce salutando i baristi ed io dò loro il cambio assieme ad altri due clienti abituali.
Appoggiato al bancone, il Rodolfo sfoggia come sempre camicie bianche a righe grosse ed un colletto a tinta unita, oggi blu.
Gestisce il ristorante più “in” del quartiere e fa lo splendido. Conosce tutti, offre caffè e bicchieri di bianco a tutti. E’ un protagonista. Fiero della sua chioma tinta mogano, che si aggiusta ad ogni virgola, imbonisce gli astanti con il commento della cronaca sul Corriere.
Oggi il confronto è serrato poiché stamane si discute della manifestazione di ieri e delle cariche di polizia. Rodolfo sostiene tesi reazionarie, ricalcate pari pari dal quotidiano, e le enuncia come un consumato attore di teatro. Mezzo bar pende dalle sue labbra ed annuisce ad ogni pausa. L’altra metà lo ignora o, come nel caso del Carletto il postino, contrappone al monologo del Rodolfo un altro monologo, che parla di impegno, di cambiamento, di solidarietà e libertà.
Gli animi si scaldano, le teste si alzano dalle rosee Gazzette e le bocche lasciano sibilare commenti a favore del Regime ora o della Rivoluzione poi. Si alza la voce, si salta in piedi per menare le mani, si recita una rissa che non scoppia mai. C’è sempre qualcuno che placa gli animi, che spegne gli ardori tardivi di questa stagionata compagnia.
Finisce, come sempre, nel più classico dei pareggi. Un paio di rigori negati, un gol in fuorigioco. L’arbitro dichiarato all’unanimità cornuto.
La Gina, distratto il Carletto con il décolleté, torna a mettere la schiuma sui cappuccini. Il Rodolfo, soddisfatto per il suo quotidiano quarto d’ora di palcoscenico, esce di scena attraversando il sipario che immette sul marciapiede.
Dal mio tavolino, dopo mesi di brioche alla crema di pistacchio, oggi ordino quella al cioccolato, realizzando la mia impercettibile parte di Rivoluzione.
Sfoglio distrattamente il giornale, che chiama “scontri con frange estremiste di manifestanti” le preordinate cariche di polizia in assetto da battaglia, e sorseggio il mio cappuccino.
Vago con lo sguardo tra i clienti, i tavolini, gli arredi ormai così familiari e noto che il Carletto mi sta guardando. Lo sguardo è tipico di chi ha voglia di attaccare discorso. Reggo lo sguardo quel tanto che basta a dargli il la.
“Roba da matti, eh?” mi dice riferendosi alle foto sul giornale “Ci raccontano solo balle. Io ero in piazza, ieri. Non è andata come sta scritto lì.”
“Non ho dubbi” gli rispondo “Scrivono per il gregge. E’ uno schifo.”
“Abbiamo vinto, contro le provocazioni, contro i loro infiltrati, contro la corruzione dei giornalisti” dice il mio vicino di tavolo. Io annuisco ancora e mi volto verso di lui.
Trasmesso al Carletto che stiamo dalla stessa parte, il resto della conversazione scorre facile ed energica nella direzione che voglio farle prendere. Il mio nuovo amico postino non vede l’ora di far sfoggio dei suoi quattordici anni di esperienza in zona.
Conosce praticamente tutti. I nuovi arrivati, gli affittuari di passaggio, le famiglie numerose, quelle abbienti … nessuno, o quasi, sfugge al suo scandaglio fatto di bollette, raccomandate, lettere, cartoline puntualmente imbucate nella cassetta della posta o consegnate direttamente a mano.
“Il civico 18… eccome se ce l’ho presente!” dice esclamando: “Sono anni che consegno a quell’indirizzo!”
“Marisa Colombo, vero?” chiedo, dissimulando la curiosità
“Già. Proprio lei.” e, allargando le mani mi sussurra: “Io la chiamo il Grande Mistero … in tutti questi anni non l’ho mai vista. Eppure la posta qualcuno la ritira…”
“Strano…” proseguo, facendo il vago: “pochi giorni fa mi pare di averla incontrata”
“Capita spesso” dice il Carletto continuando imperterrito il suo discorso: “un anziano muore, parte, sparisce … e tutto continua come prima. La posta, le bollette, continuano ad arrivare e qualcuno, un amico, un lontano parente, si occupa di tutto”
La Gina, che origlia dall’inizio, si sente in dovere di intervenire, con il fare di chi distrattamente pensa ad alta voce: “Io sapevo che la casa in questione è disabitata da anni. Pare che la Marisa, che nemmeno io ho mai visto, sia tornata in Sicilia da una sorella molto malata.”
Carlo mi incalza: “Davvero l’ha conosciuta? Quando? Dove?”
La procace barista alza il sopracciglio e tende le orecchie, pronta a scattare con una raffica di domande, e posa lentamente lo strofinaccio accanto al lavandino.
Il cielo è nero ed i lampi, in silenzio, preannunciano un acquazzone in arrivo. L’aria si ferma, anche dentro al bar, solo la macchina dell’espresso soffia piano un sussurro di vapore. Siamo rimasti in tre nel bar e la sensazione che provo è quella di chi non ha scampo.
Allora mento.
Come sempre quando mi chiudono all’angolo, mento.
Spudoratamente, senza ritegno, con coraggio che altrimenti non avrei. Gioco sul fattore sorpresa: la sparo grossa, enorme, al limite dell’incredibile. Vado oltre la realtà e oltre l’evidenza. Credo a ciò che dico così tanto che quella menzogna diventa la realtà.
“Conosciuta? Chi?” chiedo con la faccia stranita
“Come chi? La signora Marisa Colombo! Quella del civico 18!” dicono quasi in coro il Carletto e la Gina.
“Ho detto Colombo? No, c’è un equivoco! Volevo dire Palombo! Oppure Palombi, non mi ricordo mai…” dico sicuro, quasi infastidito “E poi il 18 manco so dove si trovi. Passo sempre dall’altra parte della via. Non conosco nessuno dal 15 in poi”.
Guardo l’orologio che ho al polso con la faccia di chi purtroppo deve andare, che l’ufficio lo aspetta. Mi alzo deciso e vado alla cassa. Pago il mio e sorrido.
Un tuono fortissimo rompe il torpore generale e dà il via al temporale.
Mentre fuori inizia a piovere, la gente inizia a correre guardando in alto, come se servisse a non bagnarsi. Un tizio porta sottobraccio una grossa ala d’angelo di polistirolo e piume e cerca riparo in fretta in un portone. La brocca del latte sul banco alle mie spalle cade in avanti e, come al rallentatore, fracassa sul pavimento. Lo zingaro del quartiere attacca a suonare una piccola chitarra sotto l’ombrellone dei gelati.
Da dentro il bar sento la voce del Carletto dire, non so a chi, “La vita è più grande. E’ più grande di te ”
Il cielo è scuro e solo i lampi mi ritornano un po’ di luce. Ad ogni singolo flash, come in un gioco di belle statuine, le persone cambiano posizione. Carletto alla cassa. Buio. Carletto sulla porta del bar. Buio. Carletto che corre via.
Apro il mio ombrello e mi incammino verso l’auto. Non è abbastanza grande da ripararmi tutto, la macchiolina di sugo sulla mia manica se la dovrà vedere con la pioggia.
Mentre procedo tra le pozzanghere, che rapide si riempiono, e gli spruzzi delle auto che sfrecciano in strada, passa semivuoto il 41 che collega il quartiere al centro.
Lo guardo fermarsi al semaforo e lentamente ripartire. Metto a fuoco. Da uno dei finestrini, comodamente seduta con la borsa della spesa sulle gambe, Marisa mi guarda e mi sorride.


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domenica 5 gennaio 2014

Sul Terzo Gradino - PARTE 3

Parte 3 - Sul Terzo Gradino



Troppo caffè. Mi trema la palpebra destra, senza controllo, e il cuore mi batte in gola. Sudo più del solito, sudo freddo e odio tutta l'Umanità. Un invisibile punteruolo mi trafigge il cranio e mi lascia in preda al mal di testa.  Sono le 18 passate e la fottuta manutenzione non si è vista. 
L'atmosfera si è fatta giallognola, al prevalere della luce artificiale su quella del sole e così tutti i colori si assomigliano. La mia faccia, la scrivania, la maglia a fiori della signora Fantini, la mela verde vicino alla tastiera di Pozzi, e' tutto indistintamente giallognolo. E sfarfalla. Maledetta, fottuta, bastarda manutenzione.
Mentre alla spicciolata tutti i giostrai di questo quotidiano Luna Park se ne vanno, riordino meticolosamente i miei attrezzi del mestiere. Riavvolgo il cavo di rete, chiudo il portatile, allineo la pinzatrice con la scatolina dei suoi punti, a formare un angolo retto con la matita, la penna blu e quella rossa. Ripongo il mouse ottico nel terzo cassetto, la gomma per cancellare nel secondo, mi assicuro che il rotolino dello scotch abbia l'estremità ripiegata di mezzo centimetro per essere rapidamente afferrabile in caso di bisogno.
Chiudo la mia borsa e mi alzo di scatto dalla sedia, che per inerzia scivola sulle rotelle mezzo metro più in là.
La scatola di latta e' ancora al suo posto e si lascia guardare. Senza troppi indugi la infilo in un elegante sacchetto di profumeria e la porto con me.
Attraverso il lungo open space spegnendo le luci, infilo la porta blindata e la chiudo. La serratura funziona con il riconoscimento delle impronte digitali. Meccanismo allo stesso tempo affascinante e pericoloso. Tutte le volte che la utilizzo sorrido. Con un sonoro "Clack!" gli ingranaggi mi chiudono fuori e accendono la lucina rossa.
Scendo le scale soprappensiero e salto i gradini due a due, una parte di me ha fretta, l'altra ha paura.
Stati d'animo come questo hanno un solo purgatorio possibile. Guido in automatico, sterzo senza un pensiero, canto pezzi di canzone che credevo di aver dimenticato e rido della freccia destra, che non mi funziona più.
Il quartiere lo frequento da poco, ma odora di casa. Quattro chilometri quadrati spersi nel nulla, pieni di storie confuse. Come la mia. L'ideale per non dare nell'occhio. 
La piazzetta con la fontana, la statua del leone accovacciato sul piedistallo, i negozi sotto i portici e, giusto in fondo alla via, il bar-kebab di Atef.
Parcheggio vicino alle poste proprio davanti a centinaia di numeri usati che ricoprono il marciapiedi in attesa della nettezza urbana. Un piccolo rospo sbuca da dietro un angolo e mi accompagna saltellando fino al leone, come se volesse ascoltare da me la storia di quella statua. La storia che il mio amico egiziano mi raccontò al nostro primo incontro.
"La grazia che Dio ha dato all'uomo, intendo: la grazia di avere il cervello, l'intelligenza..." mi disse Atef, dopo avermi stappato la seconda birra "Dio non ha dato al cane. Capisci amico mio?"
"Certo. Capisco" ma in realtà non capivo affatto.
"Bene. L'uomo ha un grande dono, ma purtroppo lo usa spesso peggio di un cane" 
"Vero" asserii, con finta convinzione.
"La statua che c'è qua fuori, il leone, tu ha visto?" indicando la strada con un apribottiglie "tu conosci storia di leone di piazza?"
"No Atef. Non la conosco. Che storia e'?"
"Per cento anni quella statua è stata al fianco della fontana: era il suo guardiano. Sappi amico mio, che per cento anni quel leone è stato un cavallo."
"Come un cavallo?" chiesi aggrottando le sopracciglia.
"Quel leone, così rasoterra, è stato il cavallo di centinaia, di migliaia di bambini" disse scuotendo la testa "tutti i bambini di qua, dei quartieri vicini anche, passavano il pomeriggio a cavalcare il leone! Capisci?" il tono era calmo, ma il volume si era alzato "Tu. Tu, amico mio, hai mai cavalcato un leone?"
Obiettivamente, ora che mi ci faceva pensare, con un velo di tristezza risposi "No"
"Capisci amico mio? L'anno scorso l'assessore a statue e cazzi vari ha deciso di mettere leone in altro posto. Su un alto piedistallo. Nessun cavaliere di leoni così. Mai più."
"Che storia triste, Atef..." mi trovai ad ammettere a voce alta, tra un sorso di birra e l'altro.
"Storia triste? Leone triste! Pensa come si può sentire una cavalcatura così fiera ad essere diventato inutile e irraggiungibile!"
Quando la testa mi ribolle, vado sempre a cena da Atef. Poco più che quarantenne, originario di un paesino a pochi km dal Cairo, è in Italia da cinque anni, parla cinque lingue, ha una moglie, quattro figli e racconta bellissime storie.
Fa il più buon kebab che io abbia mai mangiato ed è un uomo orgoglioso. Mi ripete sempre: "Il bene e' lento, richiede tempo, il male e' fulmineo". Non gliel'ho mai chiesto, ma credo sia una frase del Corano.
Ormai sono un cliente abituale, quando entro lui già sa cosa mi deve preparare. Legge il mio umore dalla mia faccia, dalla postura delle spalle e non sbaglia mai.
Questa sera non ha dubbio: super piccante. Tripla cipolla.
Senza dire una parola, impacchetta la mia cena e me la porta con una bella Tennent’s ghiacciata. Io gli sorrido un grazie e mi immergo nel pasto senza pensare ad altro.
Quando ho finito accanto a me c’è la moglie di Atef. Ha la mia età, ma mi tratta come una mamma. Mi guarda con il suo grande sorriso e mi sussurra: “Giornata difficile, eh Lucio?”
Io annuisco in silenzio
“A volte a me piacerebbe essere un bambino che rinasce” mi dice con gli occhi lucidi “per poter dimenticare tutta la mia vita, che non mi piace più”
Siccome stasera di cose tristi non ne reggo più, io mi alzo, ringrazio, pago e vado via.
Mi dirigo dritto verso il civico 18. Le luci sono spente. Busso alla porta. Prima con delicatezza e poi più forte, in fondo sono le otto di sera, la Signora Marisa dovrebbe essere ancora sveglia.
Niente. Non un suono. Allora scampanello. Un colpo, due, tre … silenzio.
Non c’è altra scelta. Dalla scatola estraggo il mazzo di chiavi ed apro.
La casa è buia e odora di canfora e polvere. Accendo tutte le luci e la ispeziono, stanza per stanza, mobile per mobile, guardo sotto il letto, in terrazzo. Niente. Nessuna traccia della mia evanescente vecchina.
Poso sul tavolo la scatola di latta e, su un foglio formato lettera preso in prestito dall’ufficio, scrivo poche righe per spiegare a Marisa che le rendo tutto ciò che mi ha dato, che non ho capito chi o cosa dovrei trovare, che se ha bisogno di me mi chiami al telefono e mi spieghi. Il numero glielo scrivo bello grande, che magari non ci vede bene.
Tengo le chiavi per me. Non so perché.
Chiudo la porta per bene e pure il cancello esterno.
Un vecchietto sugli ottanta, gilet di lana verde e coppola grigia, mi fissa fumando una sigaretta. E’ il vicino di casa. “Buonasera” mi dice “lei è il nuovo inquilino?”
“Veramente no” rispondo “sono venuto a riportare una cosa alla signora. Me l’aveva prestata.”
“In questa casa qui?” mi chiede stupito l’anziano “la signora in questa casa qui?”
“Certo. L’ho incontrata ieri”
“Ma che strano … la signora è tornata in Sicilia diversi anni fa. La sorella stava tanto male. Pensavo che la casa fosse disabitata … Me la saluti tanto quando la rivede! Gli dica Giuanin!”
“Non mancherò!” e perplesso mi allontano.

Casa mia è a due passi, la statua del leone, quando le passo accanto, sembra invitarmi a fare un giro. Sono troppo stanco, è ora di dormire.




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