domenica 5 gennaio 2014

Sul Terzo Gradino - PARTE 3

Parte 3 - Sul Terzo Gradino



Troppo caffè. Mi trema la palpebra destra, senza controllo, e il cuore mi batte in gola. Sudo più del solito, sudo freddo e odio tutta l'Umanità. Un invisibile punteruolo mi trafigge il cranio e mi lascia in preda al mal di testa.  Sono le 18 passate e la fottuta manutenzione non si è vista. 
L'atmosfera si è fatta giallognola, al prevalere della luce artificiale su quella del sole e così tutti i colori si assomigliano. La mia faccia, la scrivania, la maglia a fiori della signora Fantini, la mela verde vicino alla tastiera di Pozzi, e' tutto indistintamente giallognolo. E sfarfalla. Maledetta, fottuta, bastarda manutenzione.
Mentre alla spicciolata tutti i giostrai di questo quotidiano Luna Park se ne vanno, riordino meticolosamente i miei attrezzi del mestiere. Riavvolgo il cavo di rete, chiudo il portatile, allineo la pinzatrice con la scatolina dei suoi punti, a formare un angolo retto con la matita, la penna blu e quella rossa. Ripongo il mouse ottico nel terzo cassetto, la gomma per cancellare nel secondo, mi assicuro che il rotolino dello scotch abbia l'estremità ripiegata di mezzo centimetro per essere rapidamente afferrabile in caso di bisogno.
Chiudo la mia borsa e mi alzo di scatto dalla sedia, che per inerzia scivola sulle rotelle mezzo metro più in là.
La scatola di latta e' ancora al suo posto e si lascia guardare. Senza troppi indugi la infilo in un elegante sacchetto di profumeria e la porto con me.
Attraverso il lungo open space spegnendo le luci, infilo la porta blindata e la chiudo. La serratura funziona con il riconoscimento delle impronte digitali. Meccanismo allo stesso tempo affascinante e pericoloso. Tutte le volte che la utilizzo sorrido. Con un sonoro "Clack!" gli ingranaggi mi chiudono fuori e accendono la lucina rossa.
Scendo le scale soprappensiero e salto i gradini due a due, una parte di me ha fretta, l'altra ha paura.
Stati d'animo come questo hanno un solo purgatorio possibile. Guido in automatico, sterzo senza un pensiero, canto pezzi di canzone che credevo di aver dimenticato e rido della freccia destra, che non mi funziona più.
Il quartiere lo frequento da poco, ma odora di casa. Quattro chilometri quadrati spersi nel nulla, pieni di storie confuse. Come la mia. L'ideale per non dare nell'occhio. 
La piazzetta con la fontana, la statua del leone accovacciato sul piedistallo, i negozi sotto i portici e, giusto in fondo alla via, il bar-kebab di Atef.
Parcheggio vicino alle poste proprio davanti a centinaia di numeri usati che ricoprono il marciapiedi in attesa della nettezza urbana. Un piccolo rospo sbuca da dietro un angolo e mi accompagna saltellando fino al leone, come se volesse ascoltare da me la storia di quella statua. La storia che il mio amico egiziano mi raccontò al nostro primo incontro.
"La grazia che Dio ha dato all'uomo, intendo: la grazia di avere il cervello, l'intelligenza..." mi disse Atef, dopo avermi stappato la seconda birra "Dio non ha dato al cane. Capisci amico mio?"
"Certo. Capisco" ma in realtà non capivo affatto.
"Bene. L'uomo ha un grande dono, ma purtroppo lo usa spesso peggio di un cane" 
"Vero" asserii, con finta convinzione.
"La statua che c'è qua fuori, il leone, tu ha visto?" indicando la strada con un apribottiglie "tu conosci storia di leone di piazza?"
"No Atef. Non la conosco. Che storia e'?"
"Per cento anni quella statua è stata al fianco della fontana: era il suo guardiano. Sappi amico mio, che per cento anni quel leone è stato un cavallo."
"Come un cavallo?" chiesi aggrottando le sopracciglia.
"Quel leone, così rasoterra, è stato il cavallo di centinaia, di migliaia di bambini" disse scuotendo la testa "tutti i bambini di qua, dei quartieri vicini anche, passavano il pomeriggio a cavalcare il leone! Capisci?" il tono era calmo, ma il volume si era alzato "Tu. Tu, amico mio, hai mai cavalcato un leone?"
Obiettivamente, ora che mi ci faceva pensare, con un velo di tristezza risposi "No"
"Capisci amico mio? L'anno scorso l'assessore a statue e cazzi vari ha deciso di mettere leone in altro posto. Su un alto piedistallo. Nessun cavaliere di leoni così. Mai più."
"Che storia triste, Atef..." mi trovai ad ammettere a voce alta, tra un sorso di birra e l'altro.
"Storia triste? Leone triste! Pensa come si può sentire una cavalcatura così fiera ad essere diventato inutile e irraggiungibile!"
Quando la testa mi ribolle, vado sempre a cena da Atef. Poco più che quarantenne, originario di un paesino a pochi km dal Cairo, è in Italia da cinque anni, parla cinque lingue, ha una moglie, quattro figli e racconta bellissime storie.
Fa il più buon kebab che io abbia mai mangiato ed è un uomo orgoglioso. Mi ripete sempre: "Il bene e' lento, richiede tempo, il male e' fulmineo". Non gliel'ho mai chiesto, ma credo sia una frase del Corano.
Ormai sono un cliente abituale, quando entro lui già sa cosa mi deve preparare. Legge il mio umore dalla mia faccia, dalla postura delle spalle e non sbaglia mai.
Questa sera non ha dubbio: super piccante. Tripla cipolla.
Senza dire una parola, impacchetta la mia cena e me la porta con una bella Tennent’s ghiacciata. Io gli sorrido un grazie e mi immergo nel pasto senza pensare ad altro.
Quando ho finito accanto a me c’è la moglie di Atef. Ha la mia età, ma mi tratta come una mamma. Mi guarda con il suo grande sorriso e mi sussurra: “Giornata difficile, eh Lucio?”
Io annuisco in silenzio
“A volte a me piacerebbe essere un bambino che rinasce” mi dice con gli occhi lucidi “per poter dimenticare tutta la mia vita, che non mi piace più”
Siccome stasera di cose tristi non ne reggo più, io mi alzo, ringrazio, pago e vado via.
Mi dirigo dritto verso il civico 18. Le luci sono spente. Busso alla porta. Prima con delicatezza e poi più forte, in fondo sono le otto di sera, la Signora Marisa dovrebbe essere ancora sveglia.
Niente. Non un suono. Allora scampanello. Un colpo, due, tre … silenzio.
Non c’è altra scelta. Dalla scatola estraggo il mazzo di chiavi ed apro.
La casa è buia e odora di canfora e polvere. Accendo tutte le luci e la ispeziono, stanza per stanza, mobile per mobile, guardo sotto il letto, in terrazzo. Niente. Nessuna traccia della mia evanescente vecchina.
Poso sul tavolo la scatola di latta e, su un foglio formato lettera preso in prestito dall’ufficio, scrivo poche righe per spiegare a Marisa che le rendo tutto ciò che mi ha dato, che non ho capito chi o cosa dovrei trovare, che se ha bisogno di me mi chiami al telefono e mi spieghi. Il numero glielo scrivo bello grande, che magari non ci vede bene.
Tengo le chiavi per me. Non so perché.
Chiudo la porta per bene e pure il cancello esterno.
Un vecchietto sugli ottanta, gilet di lana verde e coppola grigia, mi fissa fumando una sigaretta. E’ il vicino di casa. “Buonasera” mi dice “lei è il nuovo inquilino?”
“Veramente no” rispondo “sono venuto a riportare una cosa alla signora. Me l’aveva prestata.”
“In questa casa qui?” mi chiede stupito l’anziano “la signora in questa casa qui?”
“Certo. L’ho incontrata ieri”
“Ma che strano … la signora è tornata in Sicilia diversi anni fa. La sorella stava tanto male. Pensavo che la casa fosse disabitata … Me la saluti tanto quando la rivede! Gli dica Giuanin!”
“Non mancherò!” e perplesso mi allontano.

Casa mia è a due passi, la statua del leone, quando le passo accanto, sembra invitarmi a fare un giro. Sono troppo stanco, è ora di dormire.




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